La Grande Guerra di Arzignano 1915 – 1918 di Luca Balsemin

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Descrizione

Nella bibliografia pressoché sterminata sulla Grande Guerra, che il recente centenario ha contribuito non poco a dilatare ulteriormente mentre una sola casa editrice friulana conta quasi 600 titoli in catalogo sull’argomento, continua ad esserci un Convitato di pietra.
Nella fattispecie si tratta della storia delle città. Non che essa sia stata completamente trascurata. Gli ultimi anni hanno visto, anzi, la comparsa di una serie di contributi anche di notevole interesse su non poche realtà urbane del Veneto. Rimane, però, un dato di fatto che lo studio della “guerra in città” o della “città in guerra” sia rimasto ai margini dell’indagine storiografica. In genere, anche se non sempre, troppo lontana dal fronte per essere coinvolta direttamente nelle operazioni militari, la città non ha polarizzato l’attenzione degli storici “militari”, troppo attratta dalla trincea e dalla vita del soldato per occuparsi di chi soldato non era. A loro volta gli storici del tessuto sociale hanno in genere visto nei decenni precedenti al conflitto, soprattutto nella fase dell’urbanizzazione industriale, un tema decisamente più interessante e, in quella successiva alla guerra, uno scenario di coinvolgimento e contesa ideologica di interesse ancora maggiore. Il Primo Conflitto mondiale ha finito così per fare da comodo spartiacque: “inviso a Dio e li inimici suoi” come gli ignavi di Dante. Una riprova di questo scarso interesse è il fatto che le tante, anzi tantissime rivolte popolari della primavera del 1915, ad opera dei disoccupati e degli emigranti di rientro, cacciati dai rispettivi Paesi di accoglienza che non sapevano da che parte si sarebbe schierata
l’Italia, hanno ricevuto poca o punto attenzione. E ciò a dispetto del fatto che le relazioni prefettizie, termometro principe della situazione all’interno, di chiara origine giolittiana vedano progressivamente i loro autori “convertirsi” dalle vecchie posizioni neutraliste a un sempre più inequivocabile sostegno all’entrata in guerra. O si fa la guerra agli Imperi Centrali, si legge tra le righe di tante preoccupate narrazioni di scioperi e proteste, o si finirà inevitabilmente per dover fronteggiare una guerra civile. La città, se non più specificamente la piazza, come sostenuto già anni fa da Mario Isnenghi, continua ad essere luogo privilegiato dello scontro, ma non è più prerogativa delle sole sinistre e rischia, anzi, di diventare il palcoscenico di una nuova destra, che vuole la guerra e la propone quale unica soluzione a tutti i mali del Paese.
Non è peraltro solo prima o all’inizio della guerra che la città sa ritagliarsi un suo ruolo da protagonista.
Col proseguire e il prolungarsi della guerra ben oltre il primo fatidico inverno, il mondo cittadino diventa uno snodo fondamentale tra il fronte e il resto del Paese. È in città che sorgono gli uffici notizie, essenziali per chi dal fronte vuole un contatto con familiari non di rado già costretti a forme di profugato e migrazione interna, o per chi da casa cerca notizie del congiunto al fronte o necessita del suo sostegno economico, in una realtà che vede l’ingigantirsi della burocrazia. È sulle vie e sulle piazze che feriti e mutilati di guerra mostrano a tutti il ruolo demoniaco di uno scontro che nessuna propaganda è in grado di edulcorare o anche solo di celare. È sempre in ambito cittadino che si mobilitano forme e comitati di assistenza e supporto economico, sociale, ma finanche morale e spirituale a chi ritorna temporaneamente dal fronte e al fronte deve poi tornare. E in questo bailamme di ruoli, spesso nuovi e inusitati, l’assoluta protagonista è la donna. In guerra le città sono delle donne. E non solo perché ne sono diventate la grande maggioranza della popolazione.
Le donne in città sostituiscono i maschi, vengono a tratti sfruttate anche brutalmente – basti pensare alla prostituzione dilagante su tutte le forme di schiavizzazione – ma al contempo maturano la consapevolezza di non poter essere mandate al fronte. Sanno o imparano presto che la guerra ha conferito loro un potere contrattuale che prima mancava, o andava ottenuto con sacrifici ben maggiori. Arzignano, in questo contesto, recita una parte tutt’altro che secondaria. Le sue industrie, la forte immigrazione che hanno comportato dalle vallate vicine, la posizione geografica che, dopo Caporetto e dopo la conclusione della guerra, la vede interessata dalla presenza degli Alleati, inglesi soprattutto, ma non solo, ne fanno, anzi, un osservatorio privilegiato. Rispetto ad altre dimensioni cittadine da Bassano a Montebelluno, per non parlare del capoluogo vicentino, essa offre, anzi, una realtà più variegate e multiforme, intrecciata com’è a
personalità (fra tutte l’erede al trono inglese) e relazioni internazionali del tutto particolari. Manca forse della drammaticità del profugato e dell’abbandono coatto, ma vive d’altro canto una conflittualità e una dinamica sociale capace di prefigurare più di uno scenario futuro.
Questo lavoro non viene, dunque, a chiudere semplicemente una lacuna “locale”. Fin da quando il suo autore mi rivelò l’intenzione di pubblicarlo “in proprio”, per una cerchia di amici inevitabilmente ristretta e selezionata, si è scontrato con la mia netta opposizione.
Di “locale” uno studio sulla Arzignano in guerra ha ben poco, se togliamo la soddisfazione di chi avrà modo di ritrovare volti e storie familiari o di scoprire legami personali con vicende che prima ignorava.
Ha ben poco – e doveva, di conseguenza, trovare la via per una diffusione più ampia – proprio perché costituisce a suo modo un unicum in un contesto, quello veneto, che come nessun altro – salvo forse l’estremità orientale del Paese di allora, viene investito dalla Guerra e con essa deve fare i conti non solo fino al suo ultimo giorno, ma anche nei mesi successivi al 4 novembre 1918. Questa unicità meritava di essere proposta non solo ai lettori, ma anche agli storici di professione, in vista di quel quadro complessivo dell’Italia in guerra che, se tracciato nelle sue grandi linee – non senza peraltro tensioni interpretative tutt’altro che sopite – che manca ancora di tante, forse troppe sfumature soprattutto dell’intreccio tra la vita dei combattenti e quella del Paese.
All’autore va il plauso di chi scrive, ai futuri – ci auguriamo numerosi – lettori l’invito a ritrovare tra queste righe il dramma e l’esaltazione della gestazione di un’Italia passata necessariamente attraverso la “catastrofe originaria” del XX secolo.

Paolo Pozzato

 

 

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